BROSSURA
Un’immensa e ordinatissima libreria codifica l’architettura della stanza secondo precise armonie sapienziali. Gli scaffali, come esoteriche partiture di un caleidoscopico arabesco, si colorano ritmicamente di testi sacri, arcani pamphlet e vecchi samizdat. Un uomo dall’aspetto mite e solenne, calmo e assorto, con un sorriso accogliente, giust’appena accennato, e uno sguardo acuto e pungente, sotteso a una profondità di pensiero pari solo alla sua grandezza interiore, polarizza l’attenzione dello spettatore: le lancette del tempo si arrestano come colte da un’improvvisa tempesta di ghiaccio e l’istante stesso sembra annunciare la discesa di una più alta, vibrante verità. Ghejdar Džemal’ non scriveva o, per meglio dire, scriveva pochissimo; amava trascorrere le notti dissolvendosi nei pensieri, calandosi nella spirale labirintica di quell’abisso che irradia, senza guide o protezioni; amava smarrirsi tra le gelide cattedrali di una periferia potenzialmente fatale, lontana anni luce dal vampirico miraggio della vita – posta da qualche parte a Nord – al di là dei poli esistenziali, per poi riemergerne con una manciata di appunti nelle tasche, dei quali avrebbe fatto dono, l’indomani, a quanti ne avrebbero condiviso il destino. Conosceva un gran numero di lingue che sapeva sapientemente utilizzare, secondo necessità, con irreprensibile rigore giacché pensiero e linguaggio sono meccanismi di manifestazione della rivelazione. Sapeva parlare, ad esempio, il turco, l’italiano, il latino, l’inglese, il farsi e l’arabo, ed era solito “pensare” in francese, giacché unicamente attraverso questa lingua – come ricorda uno dei suoi più stretti collaboratori [Ruslan Aisin] – era in grado di elaborare categorie filosofiche altrimenti troppo difficili da definire con il solo ausilio della sua lingua madre. |